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L’importanza di “Deep Space Nine”

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Oggi siamo tutti d’accordo che il peggiore errore che si possa fare nel leggere Shakespeare sia quello di farlo come letteratura. È solo nella dimensione dell’evento teatrale, della sua messa in scena, nell’interpretazione e relazione con il pubblico, che si materializza la reale natura contenuta nel testo scritto dal Bardo. È sulle tavole, possibilmente in vecchio legno secolare del palcoscenico londinese, che si libera lo spirito per così dire animale dell’intenzione poetica della partitura teatrale.

È una idea a cui penso e ripenso durante una delle missioni impossibili che mi sono dato per le vacanze di Natale e Capodanno dello scorso anno: guardare una vecchia serie televisiva. Un po’ per volta, a cavallo dei pranzi e magari di qualche serata un po’ lenta, da solo a casa, con determinazione e regolarità. Niente abbuffate, perché sette stagioni sono troppe per un fine settimana.

Tuttavia, lo faccio volentieri, perché mi piace ricadere in un’epoca diversa, che non c’entra niente con lo streaming o con la fruizione disarticolata delle storie di oggi. Un’epoca in cui le serie si guardavano a orario fisso soprattutto nel pomeriggio, durante “l’ora dei ragazzi”, con una cadenza che era dettata dai palinsesti, dalla sensibilità dei programmisti televisivi e di chi curava adattamenti e doppiaggi.

In questi due mesi o poco più mi sono visto quasi tutto Deep Space Nine, insomma, che poi era il mio grande “vuoto” nell’esperienza di trekkista. Ho visto da bambino la serie classica di Star Trek (e quella a cartoni animati) quasi per caso, sulle tv private nostrane. Ho visto Star Trek Next Generation durante la sua prima messa in onda italiana e poi nelle varie repliche. Ho invece intercettato per qualche motivo che adesso mi sfugge solo pochissimi episodi di Deep Space Nine, per poi rifarmi con la slavina di serie (da Voyager in là) e di film e di serie più recenti che sono arrivate nei venti anni successivi.

Fin troppa roba, per essere sinceri. Ma fanno parte della mia biografia, ormai. Ad esempio, ero da poco arrivato a Milano quando ho messo piede per la prima volta al mitologico cinema Arcadia di Melzo per vedere il reboot di Star Trek sul grande schermo, rimanendo fulminato dai neon di J.J. Abrams.

Deep Space Nine mi mancava, e in un certo senso ho anche capito perché. Negli anni la precedeva una fama alquanto negativa. Andò in onda fra il 1993 e il 1999, per sette stagioni e un totale di 176 episodi. Fu la prima serie di Star Trek (quasi) senza un’astronave. Era lenta, pesante, con tratti da soap opera, dove non si andava mai da nessuna parte (sempre dentro il set della stazione spaziale), con un mix di personaggi sopra le righe e inadatti, quasi caricaturali.

Uno per tutti: il mutaforma Odo, conestabile della stazione spaziale bajoriana gestita con la Federazione e affidata al comando di Benjamin Sisko, l’Emissario. Una trama strana, quasi una carnevalata, sembrava, rispetto alla semplicità mininalista della marina della Federazione: una grande nave, un grande capitano, una missione chiara, amici e nemici con i quali sbrigarsela in modo relativamente semplice e soprattutto veloce (una puntata e ciao).

Invece, Deep Space Nine è stata una scoperta. Perché non è una serie, ma sono almeno tre serie diverse compattate, con un livello di produzione molto interessante, alternato tra alti (è stata la prima serie a usare sistematicamente modelli in CGI al posto di quelli tradizionali delle astronavi) e bassissimi (episodi fatti usando giocattoli truccati per ricreare ambientazioni spaziali low cost) e un grande peccato originale. Una cosa imperdonabile per i puristi: Deep Space Nine ha praticamente rubato la sua premessa (la grande base spaziale vero porto di mare della galassia) a Babylon 5, una produzione che stava nascendo in quello stesso periodo e con la quale ha molti punti di contatto e similitudini.

Invece, Deep Space Nine ha una sua dignità, oltre che una certa importanza. Per spiegarlo ci sono alcuni punti che voglio sottolineare. Il primo è la dimensione western della narrazione: Deep Space Nine è una base secondaria vicina a un pianeta (Bajor) non molto avanzato che è stato liberato dall’occupazione cardassiana e ora è entrato nell’orbita politica della Federazione. Però non ci entra subito, nella Federazione. Invece, rimane sulla porta, anche perché sul pianeta c’è una forte anima religiosa ortodossa che impedisce l’avvio di una cultura laica e scientifica come quella della Federazione dei Pianeti (che qui si scopre essere fondamentalmente atea o quantomeno agnostica e scientista).

All’improvviso, però, si attiva un wormhole che collega direttamente quel pezzettino di spazio del quadrante Alfa della nostra galassia con un altro all’opposto, il quadrante Delta. È un salto enorme, il wormhole è l’unica via per fare la traversata (e dentro ci sono anche degli alieni multidimensionali che interagiscono con tutti quanti) e all’improvviso la base spaziale acquista una nuova centralità perché avvicina (come fosse la ferrovia del vecchio West) una nuova frontiera e apre possibilità di commercio e di incontro.

Deep Space Nine diventa la San Francisco del 1849, una città che dopo la scoperta dell’oro si popola molto velocemente. Ci sono avventurieri, commercianti, casinò, personaggi ambigui anche tra quelli che gestiscono la base dal carattere o dal passato complesso, che vogliono la libertà della vita nella frontiera. Passiamo dal modello narrativo della Casablanca dove Sam deve suonare ancora una volta il suo motivo eterno a uno da porto di pirati e avventurieri dove, come sa il furbo Quark, a fare i soldi sono i traffichini Ferenghi che vendono pale e carriole ai cercatori, e che gli fanno perdere le loro fortune al tavolo da gioco.

Deep Space Nine è un western fatto molto bene, che esplora con intelligenza tanti vecchi tropi della narrazione di frontiera e stuzzica la curiosità sul mix di personaggi che abitano la base. È una narrazione corale che viene in parte dominata da Benjamin Sisko (Avery Brooks), all’inizio comandante (sarebbe un grado pari a quello di colonnello per la marina), che poi viene promosso capitano con una astronave d’appoggio a sua disposizione, la USS Defiant. In realtà, tutti i personaggio hanno il loro spazio, vengono esplorati il carattere e le origini, vengono create situazioni stile “Enterprise classica” e altre stile “Next Generation”. Divertenti, anche se in effetti non molto movimentate.

Poi, alla fine della seconda stagione, quando la serie sta diventando oggettivamente ripetitiva e un po’ noiosa, parte la seconda fase: la Grande Narrazione. E qui tutto cambia. Perché entra il Dominio, un impero di mondi del quadrante Gamma che dichiara sostanzialmente guerra al quadrante Alfa e soprattutto alla Federazione, avviando una complessa guerra fatta di fasi, con alleanze multidimensionali e una lenta progressione con dei tratti drammatici, che fanno eco al non visto della serie, cioè alla precedente occupazione di Deep Space Nine da parte dei cardassiani, che ne avevano fatto uno dei tanti campi di prigionia dei bajoriani durante l’occupazione. Da Casablanca a Roma città aperta a San Francisco e poi a Hong Kong prima della restituzione britannica alla Cina continentale.

Questo secondo aspetto ha in realtà due dimensioni narrative. Da un lato la geopolitica spaziale, elemento sempre presente in tutte le serie di Star Trek o sullo sfondo o in maniera frontale ma piuttosto semplicistica, che però qui diventa realmente sofisticato e complesso. Gli attori in gioco si moltiplicano, e diventa complicato seguire la politica delle relazione della Federazione con i bajoriani, i cardassiani, i breen, i romuliani, i klingon e poi il Dominio, fatto a sua volta di varie specie, alcune delle quali totalmente artificiali, come i Jem’Hadar e i Vorta, creati in provetta dai Fondatori.

L’altro aspetto è la relazione tra le razze, che trascende gli aspetti di politica spaziale: ci sono esponenti del nemico che sono amici e persone dei popoli alleati che sono nemiche. Tradimenti, cambi di casacca, viltà, eroismi. Il ferenghi Quark che diventa, da profittatore e collaborazionista dei cardassiani, una specie di primula rossa della resistenza. Elim Garak, il cardassiano buono (si fa per dire) fa il suo percorso di redenzione. E così via.

Va aggiunto anche che alcuni di questi popoli hanno tratti che sembrano presi di peso dal melting pot americano, tra irlandesi, afroamericani, ebrei dell’Europa dell’est, russi, africani, anche italiani. Sono spicchi, frammenti, immagini e maschere da commedia, ma in qualche modo danno un tocco di realismo in più alla narrazione. Dall’altro lato, le dinamiche del conflitto che poi diventa la guerra del Dominio si estendono per cinque anni e altrettante stagioni. La guerra vera e propria si sviluppa nelle ultime due e segna la parte di maggior compattezza narrativa.

C’è una cosa da capire prima di toccare il terzo e ultimo aspetto narrativo che mi ha colpito di più: il Grande Arco Narrativo. Per capirlo, dobbiamo fare come per le opere di Shakespeare e ricollocare Deep Space Nine nel suo contesto: la televisione di flusso degli anni Novanta, prima della nouvelle vague delle serie televisive del Ventunesimo secolo che il Corriere della Sera ha paragonato alla grande forma della narrazione borghese dell’Ottocento e del Novecento: il romanzo.

Come abbiamo detto, Deep Space Nine sta a cavallo tra Next Generation e Voyager. Andò in onda due anni dopo la morte di Gene Roddenberry e passò il testimone al primo capitano donna protagonista di una serie, cioè Kathryn Janeway, interpretato da Kate Mulgrew. Quest’ultima riportò a casa la USS Voyager dal quadrante Delta, dopo che era si era persa a causa dell’equivalente fantascientifico di una tempesta marina nel pieno del Pacifico a metà del Seicento. Negli Stati Uniti, entrambe le serie hanno avuto un notevole impatto, anche se va detto che Deep Space Nine è stata molto apprezzata molto di più là che non qua da noi, per un motivo particolare: la sua poca visibilità.

Deep Space Nine in Italia ha avuto una messa in onda travagliata: le prime tre stagioni sono arrivate subito sulla Rai, poi un po’ di vuoto, alcune false partenze, il ritorno in televisione con alcune puntate doppiate e altre sottotitolate, il passaggio su Jimmy, altri passaggi in cofanetto Dvd, in allegato alle riviste, su Italia 7 e poi oggi in streaming su Netflix e Paramount+. Questa storia editoriale frammentaria è particolarmente grave, perché da noi ha fatto invecchiare la serie (che ha stilemi narrativi oggi quasi ingenui, molto anni Novanta), senza dare la possibilità di godersela nella sua interezza con la facilità che sarebbe stata necessaria.

Tuttavia, Deep Space Nine ha avuto un ruolo fondamentale nella storia della televisione in generale e delle serie televisive di largo consumo in particolare: ha introdotto per la prima volta una scelta rivoluzionaria di creazione di un Grande Arco Narrativo che segue un’unica storia per ben cinque stagioni. Prima del reboot di Battlestar Galactica, di Desperate Housewives, di Lost, e meglio degli sceneggiati tv alla Twin Peaks (che nascono fin da subito come narrazioni uniche, delle specie di miniserie già determinate anche nel numero di episodi), fu Deep Space Nine che detta il passo. È una serie rivoluzionaria e “grande”, con 23 episodi di 45 minuti a stagione. Episodica (lo vediamo tra un attimo), perché già pronta per essere guardata senza un ordine prestabilito in syndication, con le repliche notturne sui canali minori della tv via cavo americana.

Tra gli stilemi di Deep Space Nine c’è di certo l’ispirazione delle soap opera. E in effetti sia stilisticamente che contenutisticamente ci sono alcuni elementi di queste: le storie d’amore e gli ambienti prevalenti in interni già visti e conosciuti. Tuttavia, c’è anche una narrazione drammatica, una serie di grandi conflitti con le loro conseguenze non solo politiche ma anche umane (le vittime civili, la loro sofferenza), la messa in discussione di fatti molto gravi ai quali si allude senza mostrarli (i campi di concentramento, la sottomissione di interi popoli, il genocidio). E poi c’è l’ambizione di mettere in scena un Grande Gioco inteso come scontro politico di interessi contrapposti fra superpotenze, in un universo multipolare in cui i buoni non sono sempre tali e ci si può alleare con dei cattivi che forse non lo sono.

Soprattutto, dentro Deep Space Nine c’è il seme di moltissima della televisione che verrà nei decenni successivi, e in questo è una serie molto moderna. Almeno, superato lo scoglio delle prime due stagioni, utili se non altro a costruire le backstory dei protagonisti, con un cast che rimane sostanzialmente immutato a parte l’aggiunga di Worf nella quarta stagione e la morte di Jadzia Darx alla fine della sesta. L’idea di unità narrativa di DS9 supera anche quella di Stargate SG-1, che peraltro è successiva, essendo iniziata nel 1997, e segna l’inizio di altre forme produttive che sono sicuramente sue debitrici per molti versi, spianando la strada a molta altra fantascienza e narrazione generale che viene dopo.

Secondo me è arrivato il momento di rivalutare Deep Space Nine, soprattutto per la sua complessità. Pensateci. Quando uscì, nel 1993, tutta la televisione era simile a Star Trek con storie a episodi, in cui l’equipaggio dell’Enterprise sostanzialmente fa flanella per la galassia, incontra un problema, fa un po’ di morale, magari con un paio di scene d’azione e anche una romantica (il solito Kirk rubacuori!), e poi trova la quadra della trama che, con una grande risata sul ponte di comando (ridono tutti tranne che il signor Spock, ovviamente) lascia sostanzialmente le cose come stanno, perlomeno sull’Enterprise.

Infatti, dopo ogni puntata di Star Trek e di alcune decine e decine di altre serie tv americane dell’epoca, siamo tutti pronti a ripetere il processo nella puntata successiva. Fanno eccezione pochi episodi divisi in due parti e gli speciali per le feste comandate (Natale e il giorno del Ringraziamento). Questo è stato lo schema base di quasi tutti i programmi televisivi (eccetto le soap opera) per cinquant’anni.

Deep Space Nine non è così. L’equipaggio non viaggia. Al contrario, i problemi vanno da loro. L’insediamento di Bajor e le questioni politiche e religiose sorte in seguito all’occupazione cardassiana e alla successiva evacuazione costituiscono da subito una parte importante della serie, e sono questioni che non si esauriscono alla fine di episodio. No, vanno avanti per anni, attraverso le varie stagioni. C’è infatti una storia unica, una Grande Narrazione, che progredisce nel tempo. La maggior parte dell’esplorazione riguarda i personaggi stessi, non la galassia. Attenzione, l’introspezione psicologica però non è il pezzo forte di “Star Trek”: la serie classica (e poi Next Generation e in misura minore Voyager) hanno un approccio diverso. Scelgono una domanda, un tema spesso filosofico per ciascun episodio, una specie di ipotesi da dimostrare (cosa succederebbe se…) e la esauriscono. Poi finisce la puntata, e con la successiva si riparte con una nuova domanda.

Ma i tempi cambiano. Deep Space Nine, e in misura maggiore Babylon 5, dimostrano che esiste un pubblico interessato a forme di narrazione più lunghe e strutturate. Queste due serie sono state le prime, ma il loro successo si è presto esteso ad altri generi, dando vita a opere televisive fenomenali, con trame complicate, livelli di scrittura di complessità crescente, ipotesi che aprono a possibili interpretazioni e che, come accade ad esempio con Lost, possono anche non giungere mai a una sintesi. Molto zen come approccio, se non fosse dettato dagli errori di impostazione della scrittura degli autori.

In questa prospettiva, Deep Space Nine è qualcosa di più che non una semplice rivisitazione originale e “moderna” dell’universo di Star Trek. Invece, la profondità che viene introdotta è originale così come è originale lo sguardo che sa offrire sull’universo di Star Trek. Gli attori aiutano, e qualcuno di loro è indimenticabile perché funziona. Come ad esempio il comandante Sisko, che meriterebbe un approfondimento per il modo con il quale viene messo in scena da Avery Brooks, che nel doppiaggio italiano è semplicemente massacrato, così come gli altri personaggi (a partire da Odo).

Per questo, come dicevo all’inizio di Shakespeare, se non si mette l’opera nel contesto di fruizione corretto, quello per cui gli autori l’hanno pensata e costruita, non si riesce a liberarne le energie e apprezzarne la fragranza. Per Deep Space Nine, una lettura collocata nel contesto corretto storicamente dà l’idea di quanto sia stata un punto di svolta della serialità televisiva occidentale. E tutto sommato anche piacevole da vedere, trent’anni dopo.

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Radar. 16 fumetti da non perdere usciti questa settimana

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Spirou. La luce del Borneo (Nona Arte). Dopo aver reinterpretato in chiave realistica il personaggio di Marsupilami con La bestia, Frank Pé e Zidrou “riscrivono” un’altra figura di spicco della bande dessinée: Spirou. Nella versione dei due autori, l’intraprendente giornalista francese decide di allontanarsi dalla vita avventurosa per dedicarsi alla pittura e al giardinaggio, ma una serie di misteriosi eventi gli impedirà di realizzare i suoi desideri.
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Lapinot. Per Toutatis! (Nona Arte). Lapinot, il personaggio più celebre creato da Lewis Trondheim, non ha mai avuto grande fortuna in Italia, con soli tre albi pubblicati oltre vent’anni fa. Nona Arte rimedia parzialmente portando in libreria il nuovo volume della serie, in cui il coniglio antropomorfo si ritrova catapultato nei panni di Asterix, in un’avventura che rilegge in chiave surreale il fumetto di Goscinny e Uderzo. Qui c’è la nostra anteprima.
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Viaggio notturno 2 (Sergio Bonelli Editore). Secondo volume (di quattro) della nuova serie a fumetti di Vanna Vinci, creatrice della Bambina Filosofica e autrice di graphic novel biografici dedicati a Frida Khalo e Maria Callas. La protagonista di Viaggio notturno è Jana, una giovane antropologa che riceve in eredità un appartamento a Bologna da una vecchia amica di famiglia. Il trasferimento nella casa, rimasta intatta dopo essere stata abbandonata anni prima dalla sua proprietaria, che aveva deciso di isolarsi dal mondo, porta la ragazza a seguire le tracce di un gruppo di persone immortali che, secondo un vecchio libro, si nutrono di sangue umano.
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Dust. La caduta di Londra (Sergio Bonelli Editore). È il nuovo fumetto di Sergio Bonelli Editore ispirato ai giochi da tavolo prodotti da Cmon, il secondo dopo Zombicide Invader – Benvenuti all’inferno del 2021. Dust è un racconto che mescola horror e fantascienza, narrando la strenua resistenza di un gruppo di cittadini londinesi che fanno di tutto per respingere le truppe tedesche, in un futuro distopico dove la tecnologia si fonde con la magia. Qui ci sono un po’ di tavole in anteprima.
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Ultimate Spider-Man 1 (Panini Comics). Il primo numero di una nuova testata scritta da Jonathan Hickman (Fantastic Four, Secret Wars) – che ha progettato il rilancio di tutto il nuovo universo Ultimate di Marvel Comics – e disegnata dall’italiano Marco Checchetto (Daredevil). La serie presenta le avventure di un Peter Parker diverso dal solito, visto che è sposato con Mary Jane ed è padre di due figli. Qui ci sono un po’ di info e alcune immagini in anteprima.
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Capitan America 1 (Panini Comics). La testata dedicata a Capitan America riparte dal numero 1, con un team creativo composto dallo sceneggiatore J. Michael Straczynski (Thor, Fantastici Quattro, Spider-Man) e dal disegnatore Jesús Saiz (The Brave and the Bold). Questa nuova storia vedrà Steve Rogers fronteggiare una nuova minaccia soprannaturale, mentre racconterà in secondo piano l’adolescenza del protagonista, dalla morte dei suoi genitori all’esperimento con il siero del supersoldato che lo ha poi reso un supereroe. Qui ci sono un po’ di cose da sapere.
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Wonder Woman 1 (Panini Comics). Ripartenza di lusso anche per Wonder Woman, le cui nuove avventure sono raccontate dallo sceneggiatore Tom King (Sheriff of Babylon, Mister Miracle, Human Target) e dal disegnatore Daniel Sampere (Crisi oscura sulle Terre infinite). Questo rilancio di Wonder Woman fa parte dell’operazione editoriale intitolata “Dawn of DC” (“l’alba di DC”), che ha avuto inizio lo scorso gennaio negli Stati Uniti.
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Batman: The Brave and The Bold 1 (Panini Comics). A proposito di Tom King, questa settimana Panini Comics pubblica anche una sua nuova storia di Batman che rivisita il primo incontro fra l’eroe e il Joker. I disegni sono di Mitch Gerads (già collaboratore di King sulle pagine di Sheriff of Babylon). Qui trovate un po’ di info e alcune tavole in anteprima.
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Sanda 1 (Panini Comics). Prima uscita di un nuovo manga scritto e disegnato da Paru Itagaki, la fumettista giapponese autrice di Beastars. Nel 2080, il Giappone deve fare i conti con pessime condizioni climatiche e un tasso di natalità in forte declino. Quando la giovane Ono sparisce e viene dichiarata morta, la compagna di classe Shiori Fuyumura farà di tutto per ritrovarla. Qui ci sono un po’ di cose da sapere.
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Kaya 2 (Edizioni BD). Prosegue la nuova serie a fumetti survival di Wes Craig, uno degli autori di Deadly Class. Sopravvissuta alla distruzione del suo villaggio, una ragazza molto agguerrita con un braccio magico ha una sola missione: accompagnare il fratello minore in un remoto rifugio sicuro. Solo lì, infatti, il bambino potrà scoprire il segreto per annientare l’onnipotente impero che minaccia il loro mondo.
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Kaito Kid 1 – Treasured Edition (Star Comics). Il primo volume (su 5 previsti) di una riedizione integrale dei fumetti di Kaito Kid, il personaggio ideato nel 1987 dal mangaka Gosho Aoyama (il creatore di Detective Conan). Tutto ha inizio quando Kaito Kuroba, un liceale che si diletta nei giochi di prestigio, scopre che suo padre era Kaito Kid, un celebre ladro gentiluomo assassinato anni prima. Kaito decide quindi di assumere il ruolo del caro estinto, nella speranza di attirare l’attenzione dell’organizzazione che l’ha ucciso.
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Colt Frontier (NPE). La collana di Nicola Pesce Editorie dedicata alla ripubblicazione del lavoro di Sergio Toppi si arricchisce di una raccolta di sei storie a fumetti accomunate dalle ambientazioni naturali e inospitali, selvagge come i personaggi che vi abitano, uomini costantemente in lotta per la sopravvivenza.
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Orazio Brown (Green Moon Comics). La raccolta di quattro fumetti brevi a tema western scritti da Giuseppe De Nardo e disegnati da Bruno Brindisi nel 1989, per la rivista L’Intrepido. Il protagonista di tutti i racconti è – appunto – Orazio Brown, un vagabondo abile con le pistole e fortunato al gioco, che ha come unico obiettivo la conquista di una giovane ragazza di una tribù indiana. Qui ulteriori dettagli e alcune pagine in anteprima.

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La crisi del Marvel Cinematic Universe è la salvezza del cinema?

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La costante voracità di contenuti manifestata da Internet e la conseguente volatilità degli stessi hanno portato di volta in volta alla nascita di nuove tipologie di articoli o di contributi da dare in pasto agli utenti. Una volta erano le famigerate gallery di immagini, da qualche anno a questa parte gli articoli compilativi sulla falsariga dei cosiddetti listoni di fine anno. I libri più attesi, i consigli per le migliori serie da accodare a quella del momento, le uscite imperdibili da gennaio al momento della pubblicazione dell’articolo. Tanto per rendere l’idea, sto scrivendo questo pezzo a marzo e sono già incappato in diversi di questi elenchi, una volta relegati al mese di dicembre. 

Proprio con questo spirito mi accingo a tentare un’analisi dell’andamento cinematografico, approfittando di un periodo – i primi tre mesi del 2024 – quasi del tutto scevro da film di supereroi. Una situazione insolita da quasi dieci anni a questa parte, ovvero dalla folle accelerazione arrivata in concomitanza della Fase 3 del Marvel Cinematic Universe fino al disastroso rush del DC Extended Universe nel 2023, con ben quattro titoli distribuiti.

A oggi, il famoso reboot di Warner Bros. Discovery guidato da James Gunn e Peter Safran deve ancora arrivare – si parla del 2025 -, mentre l’ormai conclamata crisi Disney è sotto gli occhi di tutti. Di conseguenza, la situazione per il 2024 si prospetta ben diversa rispetto a quella a cui ci eravamo abituati, nostro malgrado. Archiviato il disastro di Madame Web a febbraio, praticamente invisibile e ininfluente al fine di questa analisi, il prossimo appuntamento cinefumettistico è per luglio con Deadpool & Wolverine, poi ci saranno Kraven – Il cacciatore ad agosto, il nuovo Joker a ottobre e Venom: The Last Dance a novembre. 

Non un anno così spoglio, verrebbe da dire, ma se scendiamo più nel particolare ci rendiamo conto di come si tratti di un’anomalia assoluta. Prima di tutto, su quattro film rimanenti, tre sono destinati a un pubblico adulto, anche se va detto che nel 2023 il 22,19% degli incassi statunitensi era marchiato Rated R (ovvero il divieto ai minori di 17 anni). Sul totale dell’anno, tre sono prodotti di seconda fascia nonostante il budget, mentre Deadpool & Wolverine e Joker 2 sono due anomalie difficilmente inseribili nel canone estetico/contenutistico dei cinecomic. Se il primo ne è sempre sembrato una parodia up to eleven, il secondo era il tentativo (involontario?) di raccontare l’arrivo sulla scena pubblica e politica di incel, troll e abitanti dei vari 8chan. Quelli che votano i vari Trump e Milei solo per vedere il mondo bruciare, tanto per capirci.

Se spulciamo i film più attesi del 2024, notiamo anche una presenza piuttosto rarefatta di altri grossi franchise davvero rilevanti. Dobbiamo tenere conto degli scioperi del 2023 e di come questi abbiano avuto un effetto a catena piuttosto importante sull’industria cinematografica. Stiamo cominciando a pagare adesso i ritardi, ma la coda lunga si ripercuoterà anche sui prossimi anni. In ogni caso, abbiamo il secondo capitolo del rilancio dei Ghostbuster, un nuovo Kung Fu Panda, Godzilla e Kong – Il nuovo impero (film che sta andando molto bene), Sonic 3, l’ennesimo film del Pianeta delle Scimmie, il sequel del Gladiatore a 24 anni dal primo capitolo, Inside Out 2, l’Alien diretto dal regista del remake di Evil Dead e poca altra roba. La speranza è di vedere andare male Mufasa: The Lion King, così che la Disney cominci a pensare seriamente di mettere uno stop ai live-action tratti dai suoi successi animati.

Mi rendo conto come si tratti di una lista occidente-centrica, ma stiamo parlando di grossi blockbuster ultra generalisti. La speranza che arrivi un nuovo RRR, Godzilla o The First Slam Dunk a ricordarci che anche dall’altra parte del mondo si producono film enormi e spettacolari in grado di riempire le sale è sempre presente. Potrebbe essere la volta buona che questa presa di coscienza si faccia davvero pop – a livello di appassionati è ormai una presa di coscienza consolidata, per lo meno dall’esplosione del cinema asiatico dei primi 2000 – ma per ora si tratta ancora di eventi troppo estemporanei per essere considerati una prassi.

Se andiamo ad analizzare il box office dei principali mercati occidentali nello scorso anno, vediamo che il dominio è ancora tutto statunitense. In Oriente la situazione cambia del tutto: in Cina, l’intera top 10 dell’anno è completamente occupata da film di casa, e lo stesso vale per l’iper-produttiva India. Ma il medesimo discorso lo si potrebbe fare anche con il Giappone. Questo a riconferma che il nostro discorso andrebbe limitato al mercato occidentale, dove a presenza di supereroi è bassissima – rimangono in classifica solo i Guardiani della Galassia – ma ci sono exploit incredibili di franchise comunque legati all’infanzia: Barbie e Super Mario

Se il secondo è in tutto e per tutto un’operazione studiata a tavolino con gli specialisti dei grandi incassi a budget contenuti della Illumination, con buona pace di chi si aspettava la poesia di un Yoshiaki Koizumi, il primo è stato una sorpresa un po’ per tutti. Visti i talenti coinvolti (a partire da regista e sceneggiatore, rispettivamente Greta Gerwig e Noah Baumbach) si sapeva sarebbe stato un ottimo film, ma non certo il successo planetario che è stato. Vedremo se sarà lo stesso con il Polly Pocket diretto da Lena Dunham, che conferma la combo “ip infantile + regista indie”. Al limite, Mattel si rimpinguerà le casse con il live-action delle Hot Wheels diretto da JJ Abrams, che in un modo o nell’altro al risultato arriva sempre. Altri nomi giganti in classifica nel 2023 risultavano Avatar e Oppenheimer, entrambi legati in maniera indissolubile alla visione autoriale del loro rispettivo regista e quindi fuori da ogni discorso di franchise.

Per quanto il 2023 si sia confermato un anno all’insegna dei blockbuster, si segnala un netto cambio di marcia rispetto agli anni passati. Qualcosa è cambiato, e ormai è evidente a tutti. Passiamo quindi ad analizzare i primi mesi di questo 2024. Parto dalla situazione italiana perché, per quanto ininfluente a livello mondiale, risulta davvero singolare. Abbiamo al primo posto Poor Things, un film di Yorgos Lanthimos – sicuramente il suo più spendibile e comunque distribuito da Disney, ma cercate di capire dove voglio arrivare -, poi una commedia romantica – filone quasi dimenticato a favore della serialità televisiva -, seguita da un film di Wim Wenders e dall’ultimo di Hayao Miyazaki. 

Per quanto l’aneddotica risulti una strategia argomentativa piuttosto fallace, il fatto di vedere una sala di provincia come quella frequentata da me gremita per un film a suo modo non proprio conciliante come Il ragazzo e l’airone è comunque singolare. Perfino una pellicola come Past Lives, apparentemente all’antitesi di quanto cercherebbe il nostro mercato (a partire dalla presenza di due protagonisti orientali), è riuscita a farsi spazio. Un film durissimo come La zona d’interesse è stato distribuito in 537 sale, mentre retrospettive dedicate agli anime sono sempre più frequenti (probabilmente frutto dell’ottimo risultato raccolto da quelle dedicate allo Studio Ghibli nelle scorse estati). Va detto però che nel 2023, nello stesso numero di weekend da gennaio al momento in cui scrivo questo articolo, i cinema italiani avevano incassato 101.561.580 milioni di euro, a fronte dei 93.478.799 del 2024 (fonte: Box Office Mojo). Quindi bene, ma non benissimo.

Non penso che il pubblico italiano si sia improvvisamente scoperto amante di opere meno mainstream di quelle a cui era abituato, semplicemente senza blockbuster a intasare le sale qualcosa bisogna pur mandare al cinema per tentare di racimolare i soldi necessari a mantenere in attivo impianti multisala sempre più grossi e costosi. Questo, unito al boom di ingressi dello scorso anno, sta generando un risultato davvero curioso. Nel resto d’Europa, la situazione non sembra così particolare, ma ci sono comunque ottimi segnali. 

Il cinema nordico continua a crescere, con diversi titoli nazionali nelle varie classifiche domestiche, mentre in genere le produzioni domestiche hanno tenuto molto bene per tutto il 2023. Nei Balcani e in Polonia i nuovi campioni degli incassi sono due prodotti autoctoni. In linea di massima, sembrerebbe che tutti vadano al cinema parecchio di più, ma questo risultato potrebbe sembrare così positivo solo perché confrontato con gli anni della pandemia. Se andiamo a confrontarlo con gli incassi pre-2019, notiamo un passivo. Rimane il fatto che la morte delle sale sembra perlomeno rimandata.

Ho un’idea piuttosto parziale di come funzionino i metodi alternativi di incasso – sgravi fiscali, finanziamenti pubblici – rispetto ai tradizionali biglietti strappati, quindi la mia analisi risulta quantomeno sommaria. Non ho nemmeno accesso a informazioni per addetti ai lavori, e le fonti a cui attingo sono di dominio pubblico. Tutto quello che faccio è limitarmi a cercare dati che confermino o meno le mie impressioni.

Eppure, al netto di tutte queste giustificazioni, l’idea che lo spazio lasciato libero dallo stradominio dei cinecomic possa essere occupato da un’idea di cinema più varia e meno tentacolare è rinfrescante. Anche perché sfido chiunque a trovare un film quantomeno stimolante negli ultimi due anni di produzioni. E non parlo solo di Marvel e DC Comics, ma dentro ci metto ogni tentativo di portare avanti franchise di quarant’anni fa. 

Come scriveva Valerio Bassan nella sua newsletter Ellissi: «Nel mercato dei media, solitamente, la competizione virtuosa è un fattore positivo. Per conquistare l’attenzione delle persone serve qualità. Quando il livello qualitativo medio si alza, si innesca un meccanismo positivo. La barra si alza per tutti. Quando il livello qualitativo medio si abbassa, invece, l’ansia dei volumi e della sopravvivenza crea una spirale di mediocrità che fa disinnamorare il pubblico. Forse non è una coincidenza che gli incassi al botteghino abbiano iniziato a calare quando la qualità è diminuita. La fatigue sarebbe dunque conseguenza, e non causa, della crisi dei supereroi».

Insomma, non ci siamo stancati dei film di supereroi, ma dei film brutti. Il potere di acquisto è diminuito sempre di più, e prima di investire i miei soldi per andare al cinema – o per portarci tutta la famiglia – a vedere un polpettone di quasi tre ore ci penso bene. Vuoi vedere che il pubblico non è poi così bue?

Se facciamo mente locale, notiamo come ogni volta che viene lanciata una nuova piattaforma streaming i primi anni di programmazione sono dedicati a prodotti di fascia molto alta. Sfogliate il catalogo di Apple TV+ per farvi un’idea, oppure pensate a come nei loro primi anni di vita Netflix e Prime producessero House of Cards e The Romanoffs. E infatti le iscrizioni fioccavano. Poi, poco a poco, la qualità si è fatta sempre più generalista. Di conseguenza, la gente prima finge di appassionarsi a prodotti mediocri, almeno per giustificare l’obolo mensile, poi cede e perde di interesse (anche se, incredibilmente, Netflix ha toccato nuovi record di fatturato). 

Per cercare di giustificare gli ultimi titoli pubblicati, possiamo benissimo dire che il genere dei supereroi – ma allargherei il discorso a tutto il cinema legato a franchise troppo invasivi e iper strutturati alla Star Warsstia attraversando una crisi d’identità, ma forse il problema è che si tratta solo di film mediocri. Quelli da recuperare su Disney+ – sempre che non abbiate disdetto l’abbonamento come stanno facendo in molti – un pigro venerdì sera bolliti dalla settimana lavorativa. 

Lo spazio libero lasciato dai guai delle major – legati sia ai risultati deludenti delle ultime uscite che alle conseguenze degli scioperi, a loro volta nati da comportamenti ingiustificabili da parte degli stessi studi – potrebbe rivelarsi una grande riserva di ossigeno per chi cerca qualcosa di diverso. Studi di produzione una volta indirizzati unicamente a noi millennial aspirazionali come A24 e Annapurna Pictures sono ormai conosciuti anche fuori dalle nicchie a cui puntavano.

Andare al cinema per vedere un anime non è più considerata una stranezza da nerd. Anzi, gli anime in toto non sono più considerati una roba da weeb. Sedici anni fa, l’arrivo dei videogiochi indipendenti scosse l’industria in maniera indelebile (sfogliate questa lista per rendervi conto dell’importanza di questo cambio di paradigma). Non vedo perché non possa succedere anche al cinema.

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La crisi del Marvel Cinematic Universe è la salvezza del cinema? leggi l’articolo su Fumettologica.

Radar. 5 fumetti da non perdere usciti questa settimana

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Nemici del popolo (Tunué). Lo sceneggiatore Emiliano Pagani (Don Zauker, Kraken) e il disegnatore Vincenzo Bizzarri (Gli assediati) narrano, in un racconto corale, le rimostranze di un gruppo di operai all’indomani della chiusura della grande fabbrica per cui lavoravano. Lo scontro tra classi sociali si interseca con contrasti generazionali, sociali e razziali. Qui c’è la nostra recensione.
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Shubbek Lubbek. Ogni tuo desiderio (Coconino Press). Il graphic novel d’esordio di Deena Mohamed, giovane autrice egiziana che intreccia realismo magico e disegno pop, leggende e critica sociale. Le vicende narrate in Shubbek Lubbek si svolgono in un mondo in cui i desideri vengono imbottigliati, messi in commercio e divisi per fasce di prezzo (quelli di terza classe, i più economici, sono anche i più pericolosi). In questo contesto, messe di fronte alla possibilità di cambiare le proprie vite, tre donne faranno scelte inaspettate.
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Il mondo in un punto fisso (saldaPress). Luigi Formola (Underdogs) e Valerio Forconi (Adamo mano di pietra) firmano un graphic novel che affronta il tema dell’autismo, in bilico tra fantasia e realtà. Il protagonista è Arturo, un ragazzo di quindici anni che non parla e ha autonomia limitata, ma che con la sua immaginazione trasforma tutto in un grande spettacolo, fingendosi circondato da domatori di tigri, clown e acrobati.
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X-Men: Giorni di un futuro passato – Devastazione (Panini Comics). Un prequel della classica saga del 1981 Giorni di un futuro passato, di Chris Claremont e John Byrne. Nella storia originale, la Kitty Pryde di un futuro in cui i mutanti venivano sterminati da robot giganti noti come Sentinelle viaggiava indietro nel tempo per arruolare gli X-Men del presente e portarli temporaneamente nella propria realtà. Questo nuovo fumetto, scritto da Marc Guggenheim (Amazing Spider-ManX-Men Gold) e disegnato da Manuel García (Planet Hulk: Worldbreaker), prende le mosse dall’omicidio del senatore Kelly, che porterà alla legge sul controllo dei mutanti e alla presenza di Sentinelle in ogni angolo. Gli X-Men dovranno trovare il modo di sopravvivere, mentre Magneto porterà avanti i propri piani. Qui ci sono un po’ di cose da sapere.
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Topolino 3567 (Panini Comics). Per festeggiare 75 anni di uscite in formato libretto, Topolino di questa settimana si presenta con una copertina disegnata da Andrea Freccero e ispirata a quella del primo numero del settimanale, pubblicato il 7 aprile 1949. All’interno del numero, oltre alle storie a fumetti inedite, troveranno spazio pillole di storia editoriale, approfondimenti sui personaggi e un’intervista a due grandi collezionisti. Qui ci sono un altre informazioni.
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Tutti i fumetti in uscita di questa settimana

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Uscite di sicurezza

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uscite di sicurezza signor lopez trillo 1
uscita di sicurezza le scappatelle del signor lopez trillo altuna

Tra il 1979 e il 1982, lo sceneggiatore Carlos Trillo e il disegnatore Horacio Altuna realizzarono per il mercato argentino una deliziosa serie di 38 episodi complessivi dal titolo Las puertitas del señor López. La serie, conosciuta in Italia come Uscita di sicurezza o anche Le scappatelle del Signor Lopez (titolo con cui la Editoriale Cosmo ha di recente dato in stampa tutti gli episodi, in un albo di formato bonelliano) narra di un modesto impiegato, dall’aspetto pingue e dalla vita triste, il quale evade in mondi paralleli e meravigliosi semplicemente aprendo la porta di un qualsiasi bagno

Così, di volta in volta, ritiratosi ai servizi, Lopez conosce una ragazza bellissima fuggendo dalla moglie terribile che lo aspetta in camera da letto o vive l’amore immaginario con la bella e giovane collega che al lavoro non lo degna d’uno sguardo, oppure diventa un acclamato Presidente della Repubblica, mentre in ufficio non riesce a farsi rispettare neanche dai sottoposti. L’evasione, tuttavia, è di breve durata, e il povero Signor Lopez si ritrova alla fine di ogni episodio nella stessa situazione iniziale, a malapena consolato dalla scappatella, costretto inevitabilmente a rassegnarsi alla mesta vita che gli tocca. 

A ben guardare, tutte le fughe nell’immaginario di Lopez sono sempre variazioni della cruda realtà: niente che possa realmente modificare la sua reale condizione, quanto piuttosto riproposizioni ripulite del medesimo status quo, buone giusto per addolcire l’amara pillola della vita vera. Come le quotidiane distrazioni che banalmente riuniamo sotto la definizione di intrattenimento, anche le porte di Lopez non rappresentano vere vie di fuga da una realtà opprimente e disperata, non svelano nuovi percorsi da esplorare, ma aiutano semmai a sopportare quelli attuali. Non hanno uno scopo curativo, ma lenitivo: sono delle uscite di sicurezza. Vanno usate solo in caso di emergenza, ma ci rassicurano sul fatto che ci salveremo, quando scoppierà la catastrofe. 

exit reality valentina tanni

Nello splendido saggio di Valentina Tanni Exit reality. Vaporwave, backrooms, weirdcore e altri paesaggi oltre la soglia (Nero Edizioni, 2023), si racconta con dovizia di particolari la nuova estetica del digitale – o per meglio dire le nuove estetiche, basate appunto su un passaggio tra dimensioni, su un continuo scivolare ambiguo tra reale e immaginario. Le tante sottoculture – narrazioni popolari e linguaggi visivi e sonori descritti nel saggio e nati con l’avvento di Internet – definiscono una modalità di rappresentazione del reale che si pone sempre sulla soglia tra il nostro quotidiano e infiniti mondi alieni, tra un passato mitologizzato verso cui guardare con fiducia, sempre rassicurante, abbellito e reso accattivante sotto forma di “vintage”, e territori totalmente altri, reami fantastici dettagliatamente definiti, nei quali costruire vere e proprie esistenze (o meglio, narrazioni di sé) alternative, come nel gaming e nel reality shifting. 

Assimilati a personaggi della Marvel, viviamo in un multiverso di scrolling e di superfici liminali, in attesa che un Thanos qualsiasi schiocchi le dita e ci faccia sparire. Negli spazi resi quasi irreali degli uffici deserti, delle camere d’albergo vuote o delle piscine abbandonate, che costituiscono l’estetica e quasi il sentimento prevalente del nostro presente, si afferma una concezione del reale che si basa appunto su una fuga controllata, innocua ed innocente, su viaggi turistici e appartamenti da Airbnb, su scappatelle limitate e sempre perdonabili. 

Il nostro desiderio di stare altrove, di essere differiti rispetto al nostro spazio e al nostro tempo, prende forme allucinate, talvolta gratificanti, talvolta inquietanti, sempre rivolte a un punto di fuga che però non abbiamo davvero il coraggio di attraversare fino in fondo. Come il Signor Lopez, ci limitiamo a immaginarci con la forbice in mano mentre tentiamo di tagliare i fili che ci legano ai nostri cattivi burattinai. Ma nemmeno nei nostri sogni riusciamo a rompere questi fili: le forbici si rompono. Così, torniamo tristemente alla scrivania, a osservare le immagini evocative sui desktop dei nostri computer. 

exit west mohsin hamid

Nel romanzo di Mohsin Hamid Exit West (Einaudi, 2017) si racconta di una coppia di giovani innamorati che, per sfuggire alla guerra che ha distrutto la loro città e le loro vite, migrano nel mondo in modo magico, attraversando porte che li conducono verso altri luoghi. Così, semplicemente aprendo e chiudendo porte, si ritrovano prima a Mykonos, poi a Londra e a San Francisco. Ma la guerra non smette di seguirli, cambia solo forma e facce. A Palo Alto, un’anziana signora che mai si è mossa da casa racconta loro di sentirsi anche lei una migrante: negli anni, tutto intorno a lei è talmente cambiato che pare un altro luogo rispetto alla sua gioventù. Non si può evitarlo: «siamo tutti migranti attraverso il tempo». 

Forse questi onnipresenti segnali di fuga sono solo un modo per impedirci di migrare, tenendoci ancorati a un eterno e frustrante presente. Forse solo stando nel tempo della nostra vita possiamo trovare una reale e proficua via di uscita. Una sera, il Signor Lopez trova per strada un cucciolo di cane bianco infreddolito e decide di portarlo a casa, ma la moglie terribile gli intima di mandarlo via, non vuole neanche vederlo. Lopez allora attraversa la porta del bagno e torna nei luoghi della sua infanzia, incontra se stesso bambino e gli consegna il cucciolo. Rientrato nel grigio presente, osserva con soddisfazione i suoi vecchi album di fotografie: in una foto, un Lopez ragazzino tiene in braccio il cagnolino bianco a cui ha voluto bene.

Leggi tutte le puntate di “Shock in My Town”

Leggi anche: Sopravvivere all’estinzione

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La buona fantascienza e da dove viene

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letteratura di fantascienza
Particolare della copertina di Urania collezione 233 – “Il matrimonio alchimistico di Alistair Crompton” di Robert Sheckley

La fantascienza, sia scritta che al cinema, sta vivendo un buon momento. In libreria e in edicola escono cose gustose: in questo mese di aprile Urania ha tirato fuori un ottimo Alan Dean Foster con la sua saga La follia di Flinx, un Robert Sheckley d’annata con Il matrimonio alchimistico di Alistair Crompton e un fenomenale Alastair Reynolds – uno degli autori contemporanei che mi piacciono di più – con Il ritorno della Demetra.

Al cinema, invece, abbiamo visto tutti che bomba è stato Dune – Parte due, il secondo capitolo della (si spera) trilogia del regista Denis Villeneuve ambientata sul pianeta Arrakis (o Dune, come lo chiamavano in tempi più civili), che poi è l’opera della vita dello scrittore Frank Herbert. Ai tempi della sua pubblicazione originaria, Dune (cinque volumi) fu un clamoroso successo, che mise l’autore su un piano molto particolare per uno scrittore di fantascienza: essere considerato un vero “autore”. Uno scrittore vero e proprio, insomma.

Letteratura di idee più che di belle scritture, la fantascienza – soprattutto americana – ha sempre pagato il dazio di essere una forma di letteratura popolare di genere, con tutti i limiti artistici che questo comporta. Inoltre, essendo basata sull’assunto che, in maniera più o meno “hard”, ci sia tanta scienza dentro ogni storia, la letteratura fantascientifica è connotata per l’uso a tratti quasi spasmodico di trovate tecnologiche, che si susseguono a ritmo serrato o quantomeno sono un elemento fondamentale della trama, tanto quanto il susseguirsi di scontri e rovesci di campo è l’elemento caratterizzante i romanzi di cappa e di spada o, più in generale, l’escapismo basato sul concetto di avventura.

La fantascienza viene infatti erroneamente percepita come una letteratura d’avventura. Certo, può esserlo (ma non necessariamente) e, come forma di letteratura popolare di genere, la trama soprattutto nei paesi anglosassoni è certamente ben orchestrata e mossa. Nelle storie di fantascienza c’è abbondanza di cose che succedono, oltre che di trovate tecnologiche o legate a entità non umane o a fenomeni scientificamente giustificabili ma mai sperimentati.

Ci sono il teletrasporto, il viaggio nel tempo con i relativi paradossi, la vita in società del futuro caratterizzate da una tecnologia oggi ancora sconosciuta o solo agli albori. C’è anche la vita in universi paralleli in cui è tutto uguale a quel che c’è da noi tranne alcuni particolari: Napoleone che ha vinto a Waterloo, Hitler che ha vinto la Seconda guerra mondiale, fino alle cose più piccole, come il battito di ali di una farfalla girato in modo diverso all’altro capo del mondo (come postulato dalla teoria del caos).

Quindi, il successo di Herbert, al di là della bontà del suo lavoro, è legato anche al tono “alto” della sua scrittura, cosa come dicevo ben poco comune. Tuttavia, non unica. Di fantascienza scritta “bene” ce n’è per fortuna in abbondanza, sia nei paesi anglosassoni che altrove. Anche da noi (per tutti: Ugo Malaguti). Per l’Europa, si cita sempre di primo acchito il buon Stanislaw Lem e più in generale tutta la fantascienza che tale non è più, perché in realtà letteratura “alta”, il cui autore usa la cifra della science fiction per esprimersi. Qui si passa da Ray Bradbury a Doris Lessing.

Tuttavia, c’è una bella lista di autori che, ad esempio, hanno vinto il premio Nobel per la letteratura (come la Lessing) ma sono anche autori di fantascienza o fantasy: Gabriel Gárcia Marquez, Kazuo Ishiguro, Rudyard Kipling, Herman Hesse, José Saramago. Intendiamoci: non sono scrittori di genere e infatti non vengono associati né al fantasy né alla science fiction. Ma hanno usato il registro fantascientifico o fantasy per esprimere la loro poetica. Invece, ottimi autori come lo stesso Herbert, ma anche come J.R.R. Tolkien, Philip K. Dick, Robert Heinlein e Arthur C. Clarke (più decine di altri) non escono mai dal “ghetto” della letteratura di genere. Sono scrittori, sì, ma “solo” di fantascienza o di fantasy.

C’è una varietà di ragioni, ma oggi, in un’epoca in cui il cartellino del prezzo è il vero cuore dell’opera d’arte e stabilisce lo statuto di “artista”, ce n’è una che spicca su tutte. La fantascienza, come tutta la letteratura di genere, è alla base della piramide dell’industria culturale perché ha esplicitamente come obiettivo il profitto. Per questo prevale, oltre all’azione anche il tratto che la caratterizza (la scienza) e non quello della ricerca attraverso la scrittura. La fantascienza deve essere “facile” (o, quantomeno, adeguata ai canoni del genere) e non frutto di una ricerca estetica.

Quando una storia di fantascienza è riuscita è una “buona storia” (cioè funziona economicamente), non una “bella storia”, cioè ben fatta per i canoni estetici tradizionali con cui si valutano i romanzi ad esempio nei grandi premi internazionali. Tutto questo partendo dall’idea che il “bello” si intenda non come categoria estetizzante ma come una forma di estetica in senso proprio.

Tuttavia, nella resa sul piccolo e grande schermo, lo “svantaggio” di una letteratura semplice, con personaggi e trame scolpiti con l’accetta e un susseguirsi di fuochi d’artificio tecnologici e di trama diventa un vantaggio competitivo notevole. La fantascienza, con la maturazione a cui è giunta la tecnica di chi fa film e serie tv (che quindi può mettere in scena di tutto con la computer graphic senza far sembrare i cattivi i Dalek del Doctor Who), è un terreno perfetto di storie da mettere in scena.

Ci sono anche altri due motivi. Il primo è che, dagli anni Quaranta a tutti gli anni Novanta, la fantascienza scritta ha esplorato moltissimo il rapporto tra l’umanità e la tecnologia, all’interno della quale la macchina cibernetica è il vero, grande alieno. Questa è la cifra del nostro tempo (a meno che non arrivi davvero una nave aliena a visitarci), cioè il rapporto tra la mente dell’uomo creatore con quella della macchina da lui creata.

Tuttavia, perché questo spazio abbondante per la fantascienza? È il secondo motivo, che spiega in maniera perfetta secondo me la ragione per cui la fantascienza ha riacquistato una sua centralità. Questa ragione deriva non solo dalla bontà dei prodotti da mettere in scena, ma anche dallo “scarico” del tempo che le persone hanno a disposizione per fruire le storie e consumare gli immaginari che gli vengono proposti. Questo “scarico”, come argomenta in maniera pressoché perfetta il mio vicino di pianerottolo qua su Fumettologica, Marco Andreoletti, nella sua ultima rubrica “Sofisticazioni Popolari”, deriva dalla crisi del Marvel Cinematic Universe che aveva militarizzato le sale cinematografiche negli ultimi due decenni con un torrente per fortuna in via di esaurimento di film di supereroi (e lo ha fatto con la buona compagnia di DC Comics e vari altri tentativi minori).

Usciti da una abbuffata di supereroi cinematografici, che hanno accompagnato la crescita di almeno due generazioni di appassionati del grande schermo e di fumetti, siamo entrati in un’epoca diversa, balcanica, per palati più sofisticati dal punto di vista dello storytelling. Non necessariamente storie “migliori”, ma di certo dal gusto più vario. È l’effetto positivo della competizione virtuosa nel mercato dei media: ha portato a galla un gusto carsico per le narrazioni che non avevamo visto.

Questo passaggio è stato aiutato anche dall’abitudine al racconto magico del pubblico generalista, che ormai accetta i tropi della letteratura fantascientifica e fantasy (più la seconda, in realtà) come ormai sdoganati e parte dell’arredo culturale della propria vita. Dopotutto stiamo vivendo nel futuro, vista anche l’incapacità che abbiamo di superare, come società, le principali elaborazioni fatte dai decani angloamericani della fantascienza tendenzialmente positivista e distopica al tempo stesso (l’ottimismo della ragione e il pessimismo della volontà, per giocare con Antonio Gramsci).

Ci siamo fermati a Blade Runner, a voler essere ottimisti. Ma il perché è argomento per un’altra rubrica.

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I 3 fumetti preferiti di Jérémie Moreau

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jeremie moreau fumettologica 2024
jeremie moreau fumetti preferiti
Jérémie Moreau alla Children Book Fair di Bologna 2024 | Foto di Gianluca De Angelis per Fumettologica

Abbiamo incontrato Jérémie Moreau alla Children Book Fair di Bologna, dove il suo graphic novel I Pizzly (Tunué) ha vinto il Premio Strega Ragazze e Ragazzi nella categoria “migliore narrazione per immagini”. È la prima volta nella storia che un fumetto riceve questo riconoscimento (qui i dettagli).

A Jérémie Moreau abbiamo chiesto quali sono i tre fumetti preferiti, quelli a cui è più legato e che lo hanno ispirato. Potete vedere le sue risposte nel reel di Instagram riportato di seguito, primo di una nuova serie di proposte video pensate per i social firmate Fumettologica e curate da Gianluca De Angelis. Su Instagram potete seguirci a questo link.

Nello specifico i titoli citati sono:

Jérémie Moreau, classe 1987, è uno dei più talentuosi fumettisti francesi contemporanei, che lavora anche nel cinema d’animazione come character designer. Dopo aver ricevuto il Young Talent Award nel 2012 ad Angoulême, ha pubblicato con lo scrittore Wilfrid Lupano La scimmia di Hartlepool (Tunué), Gran Guinigi menzione speciale a Lucca Comics & Games 2015.

Con La saga di Grimr (Tunué) ha vinto il Fauve d’Or nel 2018 come Miglior Album al Festival di Angoulême, il più importante riconoscimento europeo in assoluto per un fumettista. Tra le altre sue opere pubblicate in nel nostro paese citiamo: Penss e le pieghe del mondo (Tunué), Max Winson (Bao Publishing) e Corri, Tempesta! (Tunué).

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Radar. 7 fumetti da non perdere usciti questa settimana

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Il mio povero pancreas (J-Pop). Un nuovo manga autobiografico di Kabi Nagata, l’autrice di La mia prima volta e Lettere a me stessa, che torna per raccontare il suo tentativo di astenersi dal bere alcolici durante la pandemia da coronavirus.
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Dead Lucky 1 (saldaPress). Dopo Radiant Black, Radiant Red e Rogue Sun, il primo capitolo di una nuova serie che espande l’universo supereroistico creato dallo sceneggiatore Kyle Higgins e dal disegnatore Marcelo Costa. La protagonista è la soldatessa Bibiana Lopez-Yang, che acquisisce il potere di controllare l’elettricità in una San Francisco avveniristica, dove robot armati pattugliano le strade.
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Lupin III – Greatest Heists (Panini Comics). Una raccolta in due volumi delle migliori storie della prima serie manga di Lupin III, il ladro gentiluomo ideato dal mangaka Monkey Punch nel 1967, scritte e disegnate dal suo creatore. Qui ulteriori info sull’edizione.
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L’Eternauta 1 (Panini Comics). Torna un classico del fumetto argentino in una nuova edizione di pregio. L’opera di fantascienza sceneggiata da Héctor German Oesterheld e disegnata da Francisco Solano López negli anni Cinquanta racconta di un’invasione aliena a Buenos Aires e della strenua resistenza opposta dai suoi abitanti. Qui ci sono un po’ di cose da sapere sul fumetto, mentre qui trovate un po’ di info su questa nuova edizione.
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Fughe (ComicOut). L’illustratore, fumettista e grafico Luigi Ricca raccoglie squarci di vite, piccoli ritratti immaginari e fiabe morali. Uno sguardo sul nostro mondo, attraverso le voci di cineasti e scrittori, da Kafka a Roberto Alajmo, passando per Antoine Doinel.
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In&Out (ComicOut). È il primo libro a fumetti pubblicato in Italia di Lina Ghaibeh, fumettista e illustratrice per metà siriana/libanese, per metà danese, che raccoglie in questo volume una manciata di racconti sui temi della diversità e dell’identità.
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Go Nagai Horror 1 (001 Edizioni). Un’antologia che raccoglie i migliori fumetti horror scritti e disegnati dal creatore di Goldrake. Tra i racconti contenuti figurano Il grande shock di Susumu, Il guerriero di mezzanotte, Nel paese in cui errano i bisonti, Il giardino dei mostri spaziali, Insetti, Neve e Il meraviglioso mondo di Go-chan.
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L’inarrestabile ascesa del cosplay nella politica

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lai pin-yu asuka taiwan cosplay politica
cosplay politica
La politica taiwanese Lai Pin-yu vestita da Asuka di Evangelion durante un comizio pubblico

Che la cultura pop abbia sempre avuto un legame profondo con la politica moderna è risaputo. A partire da quello storico dibattito televisivo tra Richard Nixon e John F. Kennedy che cambiò per sempre le carte in tavola, gli intrecci tra intrattenimento e cosa pubblica si sono fatti sempre più serrati. Nel corso degli anni abbiamo visto cantanti, attori, performer di ogni tipo e levatura schierarsi contro o a favore di un determinato candidato. 

Qualcuno si è candidato lui stesso e ha pure vinto, partendo da Ronald Reagan e finendo con Volodymyr Zelenskyy. Nel frattempo magnati dei media e personaggi televisivi hanno cambiato in maniera definitiva la comunicazione politica. Icone popolari sono state usate loro malgrado per fare propaganda, mentre su alcune si sta ancora litigando

Uno dei momenti più significativi e densi di questa tendenza l’abbiamo avuto con il messaggio di Arnold Schwarzenegger in risposta al tentativo di golpe di Capitol Hill. Nel video vediamo l’attore e politico brandire un prop di scena del suo film Conan e declamare «La nostra democrazia è come l’acciaio di questa spada. Più è temperato, più diventa forte». Un attore eletto governatore che interpreta un personaggio di fantasia indissolubilmente associato a lui commenta un fatto gravissimo come un colpo di stato. Siamo oltre Black Mirror.

Attualmente, però, uno degli aspetti più curiosi e coloriti di questo costante scivolare nell’immaginario popolare da parte della sfera politica l’abbiamo con le sempre più frequenti incursioni nel mondo del cosplay, sancendo in maniera definitiva il nuovo infantilismo della classe dirigente.

In Giappone, già nel 2010, l’ex giornalista economico Takaaki Mitsuhashi si era fatto notare per i suoi eventi elettorali a tema Evangelion, dove lui stesso si presentava vestito da Gendo Ikari. Curiosa la scelta di avviare la propria carriera politica scegliendo di vestire i panni di quello che Wired definiva come «innegabilmente il padre più mostruoso di sempre. Dopo aver abbandonato a se stesso il figlio Shinji alla morte della madre, lo porta praticamente alla follia costringendolo a pilotare un robot contro terrificanti creature aliene, facendolo impazzire di paura». 

Guarda caso, l’uomo perse le elezioni e nel 2018 fu arrestato per aver picchiato e morso sua moglie, che questo articolo indica genericamente come “teenage wife” senza specificarne in maniera più precisa l’età. Anche nell’ipotesi meno sgradevole è comunque facile immaginarsi un divario quantomeno importante. Oltretutto, sempre in maniera del tutto casuale, l’uomo si era dimostrato in più occasioni un razzista iper-conservatore anti immigrazione che sputava sentenze terrificanti dalle televisioni nipponiche, mimando mossette da cattivo degli anime

Ben diversa la storia della candidata progressista Lai Pin-yu, che nelle elezioni di Taiwan del 2020 festeggiò la vittoria del suo seggio legislativo pubblicando una sua foto in cui interpretava Sailor Mars. Precedentemente aveva tenuto una serie di incontri con il pubblico nei panni di Asuka, sempre da Evangelion. Un’immagine così iconica da finire anche sui suoi manifesti elettorali

Come se non bastasse, sulla stessa affissione trovavano spazio anche il candidato legislativo indipendente e cantante black metal sinfonico Freddy Lim, bardato con il suo costume di scena, e la presidente in carica Tsai Ing-wen agghindata con orecchie di gatto. Piccola curiosità: tutti e tre, nonostante la terrificante carica kitsch della loro campagna di comunicazione, vinsero le elezioni nei rispettivi ruoli per cui erano candidati. Lai Pin-yu, all’epoca ventinovenne, è attualmente il membro più giovane dello Yuan legislativo, la legislatura unicamerale di Taiwan. 

Alle sue spalle ha già una lunga carriera di attivismo, con lotte di quartiere che vanno dalla riduzione del traffico e dell’inquinamento acustico, a questioni più ampie come l’uguaglianza di genere e la salvaguardia della sovranità di Taiwan. Il tutto portando avanti le questioni dal suo ufficio «dipinto tutto di nero, teatricamente illuminato con luci a binario fissate sul soffitto e decorato con una vetrina piena di alcune delle sue action figure preferite. C’è il detective adolescente Yusuke Urameshi di Yu Yu degli spettri, una delle serie manga più popolari degli anni Novanta, e una raccolta del clone sociopatico Rei Ayanami della serie TV anime Neon Genesis Evangelion. Dall’altra parte del corridoio, nell’ufficio del suo staff, gli scaffali sono pieni di manga e soprattutto di action figure di anime».

Il personaggio di Asuka fece la sua comparsa anche nelle elezioni peruviane del 2021, interpretata dalla politica Milagros Juárez dell’UPP (Partito Nazionalista dell’Unione del Perù) noto per le sue posizioni populiste e xenofobe. A farle da contraltare avevamo Jorge Hugo Romero del PPC (Partito Popolare Cristiano) che invece scelse di presentarsi vestito come un rappresentante dell’Organizzazione Alba di Naruto. «Una scelta forte che sottolinea come l’idea dell’autore Masashi Kishimoto di creare un gruppo di ninja senza padrone, uniti per sconfiggere una casta corrotta che ha portato solo morte e distruzione: un’alleanza Shinobi fra i paesi sudamericani contro la classe dirigente» scrive Gianluca Falletta.

Rimaniamo in Sud America e spostiamoci in Argentina, dove troviamo Lilia Adela Bolukalo Lemoine, meglio nota nella comunità cosplay internazionale come “La Lemoine” o “Lady Lemmon”, grazie alla sua attività che la portò a diventare una cosplay professionista dopo anni passati nell’IT. Nel 2011 organizzò la sua prima protesta per la libertà di espressione sul web, esponendosi a favore del collettivo Anonymous. Proseguì poi come attivista nel diffondere fake news sul Covid-19, compreso il fatto che fosse tutta una conseguenza del comunismo.

Nel 2020, un video dove lanciava uova a un furgone dell’emittente C5N, diventò virale, trasformandola in una piccola celebrità. «Grazie @C5N… ho ottenuto 500 iscritti in un colpo solo. Ed erano piagnucoloni che si sono spaventati perché una bambina li ha colpiti con un uovo sul parabrezza…» scriveva sul suo profilo Twitter. Già l’anno prima aveva provato a intraprendere la carriera politica, notata dal politico ed economista conservatore Joseph Louis Espert, ma aveva perso le elezioni come deputata per la città di Buenos Aires. 

È finita a curare l’immagine di Javier Milei, attuale presidente dell’Argentina, altro personaggio sopra le righe che merita di essere citato in questo caso. Ultralibertario pericolosamente vicino all’estrema destra, guru del sesso, emotivamente instabile, sempre pronto all’insulto violento, così affezionato ai propri cani da definirli i suoi consiglieri (compreso uno morto e con cui dialoga via medium). La prima mossa da parte della nuova consulente è stata quella di convincerlo a vestirsi sempre da Wolverine (motivo per cui non toglie mai la giacca di pelle). 

«Sembra Wolverine. Si comporta come Wolverine. È come un antieroe» spiegava la stessa Lemoine al Guardian. «[Wolverine] è molto leale e coraggioso. Può arrabbiarsi davvero ed essere aggressivo con i suoi nemici – ma solo quando viene attaccato. Non ucciderà mai qualcuno né attaccherà senza motivo». In un secondo momento, l’allora candidato presidente si è presentato a una convention vestito da General AnCap, un supereroe inventato dallo stesso Milei la cui missione è quella di «prendere a calci nel culo keynesiani e collettivisti che non rispettano l’individuo».

Un personaggio simile non può che attirare gente altrettanto surreale. Ispirati dal cosiddetto “piano motosega” promosso dallo stesso Milei – un modo colorito per pubblicizzare l’intenzione di tagliare gran parte delle spese pubbliche – i suoi sostenitori hanno cominciato a citare sempre più spesso il manga Chainsaw Man di Tatsuki Fujimoto. Così è successo che alle urne argentine si sono presentati votanti bardati come il protagonista Denji, oppure si è scelto di scendere in strada a festeggiare la vittoria vestiti alla stessa maniera. 

Non si è trattato del primo caso in cui il cosplay è stato scelto dai sostenitori – e non dallo stesso candidato – di un determinato politico come strumento di comunicazione. Già nel 2016 i supporter di Trump si erano fatti riconoscere presentandosi ai vari appuntamenti elettorali travestiti dal loro stesso rappresentante, confermando ancora una volta come la carriera politica del tycoon sia partita da poco più che uno scherzo da parte di una fetta di popolazione semplicemente desiderosa «di vedere il mondo bruciare». Incredibile come anche all’interno del paper universitario a cui stiamo facendo riferimento si usi un meme pop per definire la condizione psicologica del supporter medio di Trump, portando la confusione tra mondo reale e trollata da Internet a un livello ulteriore.

Nel 2020, l’utente Twitter Hyenasandgin invitò tutti i colleghi cosplayer a postare una foto dove si mostrava la ricevuta della propria donazione al candidato Bernie Sanders, promuovendo l’iniziativa con l’hashtag #cosplayersforbernie. Più di recente, il boicottaggio delle grandi major ha bloccato l’uscita di tutti i blockbuster occidentali in territorio russo, eppure alle recenti elezioni Barbie si è comunque vista. La scelta di presentarsi nei panni di un personaggio votato all’autodeterminazione – seppure all’interno di un prodotto finanziato da multinazionali – a elezioni completamente pilotate, non può essere del tutto casuale. A fare da contraltare alla moderna icona femminista di Greta Gerwig ha fatto una comparsata anche Cheburashka, orgoglio della letteratura per l’infanzia sovietica

In Indonesia, per incoraggiare i votanti a presentarsi a uno degli 800.000 seggi elettorali, sono stati gli stessi presidenti di seggio e scrutatori a presentarsi agghindati con costumi di ogni genere. Da Superman a Ultraman, passando per Naruto e Kenshin Himura da Samurai X. In Thailandia, nel 2023, si sono tenute le elezioni più partecipate di sempre, e anche in questo caso qualcuno non ha resistito e si è presentato alle urne inguainato nel costume di Spider-Man

Molte di queste storie non possono che far sorridere, altre sono decisamente più inquietanti. Tutte invece testimoniano come la percezione della nostra vita politica abbia ormai perso del tutto il peso istituzionale di cui una volta era ammantata. Lo sdoganamento continuo di ogni forma di concessione al proprio ego ha ridotto in maniera pericolosa l’importanza della sfera pubblica, ambito in cui un tempo si era tenuti a muoversi per codici condivisi. Oggi tutto deve essere pop, divertente, scanzonato. Anche se stiamo mettendo sul piatto l’amministrazione di interi stati. 

Si tratta del tipico scenario in cui questioni sociali di primaria importanza non vengono discusse nei luoghi adibiti, ma si preferisce demarcarle all’intrattenimento. Come se la conta dei personaggi maschili e femminili all’interno di una serie televisiva contasse più di leggi e riforme. Così, mentre metà della platea passa il tempo a discutere se la battuta di un comico possa essere legittima o meno – ignorarla sarebbe troppo difficile -, l’altra ha il preciso obiettivo di continuare a memizzare la realtà come se si trattasse di uno scherzo

Quando, nel 2021, non si manifestò nessuna delle fantasiose ipotesi portate avanti dai seguaci di Qanon, molti si illusero che forse il gioco si era finalmente rotto del tutto. Uno degli esponenti più in vista del movimento twittava laconico che era ora di «tornare alle nostre vite come meglio possiamo», come se si fosse trattato di un gioco di ruolo dal vivo ormai giunto al termine. A distanza di tre anni da quel momento, mi pare che le cose non siano migliorate poi molto.

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Radar. 12 fumetti da non perdere usciti questa settimana

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Sand Land (Star Comics). La nuova edizione integrale di uno dei manga più importanti di Akira Toriyama, il creatore di Dragon Ball morto lo scorso marzo. Il manga racconta la storia di Beelzebub, principe dei demoni, e dell’anziano sceriffo Rao che, assieme al ladro Shif, si lanciano in una missione epica per scoprire una leggendaria sorgente d’acqua. La ricerca li vedrà confrontarsi con avversari inaspettati e sfidare i propri limiti in un mondo segnato dall’avidità di un monarca che ha trasformato l’acqua in strumento di potere. Qui ci sono un po’ di info su questa nuova edizione.
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Leviathan – Complete Box (Star Comics). Un manga scritto e disegnato da Shiro Kuroi, pubblicato originariamente in Giappone sulla storica rivista Weekly Shonen Jump. Nelle profondità della galassia galleggia alla deriva il Leviatano, un’enorme navicella spaziale. Un gruppo di predatori stellari se ne appropria e rinviene il diario di uno studente, Kazuma, che racconta gli eventi accaduti a bordo. Ma un sopravvissuto al disastro si nasconde da qualche parte nel labirinto di rovine.
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Don Zauker – Andate in pace (Feltrinelli Comics). Un’antologia di storie a fumetti con protagonista Don Zauker, il prete esorcista creato da Emiliano Pagani e Daniele Caluri e pubblicato originariamente sulle pagine del Vernacoliere. Nella raccolta – che esce a oltre un anno dalla conclusione ufficiale della serie, con il volume In nomine Zauker – trovano spazio anche materiali inediti.
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Giro de Il Giappone. Dieci anni di unCommon: Wheels (Feltrinelli Comics). Sio e Nicola Bernardi (già autori, in coppia, di Storiemigranti) tornano con un reportage a tecnica mista, in parte fumetto, in parte raccolta di fotografie, per raccontare il loro viaggio in Giappone nella primavera del 2014.
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Una storia a fumetti (Bao Publishing). A quasi vent’anni dalla sua prima pubblicazione per l’editore Black Velvet, Bao Publishing ripropone la prima raccolta di storie a fumetti di Alessandro Baronciani, autore pesarese di Le ragazze nello studio di Munari, Negativa e Quando tutto diventò blu. In origine, il libro era stato pensato come un’antologia dei primi lavori dell’autore, pubblicati in modo autoprodotto per cinque anni e spediti ai lettori per posta. Questa nuova edizione comprende anche una serie di contributi di colleghi di Baronciani del calibro di Davide Toffolo, Paolo Bacilieri e Tuono Pettinato.
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Favole per psicoterapeuti (Bao Publishing). Una nuova raccolta di strisce e vignette di Maicol & Mirco, in parte pubblicate su riviste come Linus e in parte inedite, descritte dalla casa editrice come «una guida pratica per uscire dalle impasse morali della vita».
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Spider-Boy 1 (Panini Comics). Primo numero di una serie con protagonista un nuovo personaggio “ragnesco” di nome Spider-Boy, il sidekick dimenticato di Peter Parker. Creato dallo sceneggiatore Dan Slott e dal disegnatore Humberto Ramos, Spider-Boy è in realtà un ragazzino dai capelli rossi e di circa 10 anni di nome Bailey Briggs, la cui esistenza è stata dimenticata da tutti, per quanto riguarda sia la sua identità mascherata che quella civile. Qui e qui potete trovare qualche informazione in più sul suo conto (occhio agli spoiler).
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WildC.A.T.s di Alan Moore (Panini Comics). Un volume di quasi 400 pagine che raccoglie tutti i fumetti scritti da Alan Moore e disegnati da Travis Charest con protagonista il gruppo WildC.A.T.S. , creato da Jim Lee e Brandon Choi nel 1992.
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Dragon Blaze G (Gallucci Editore). Un nuovo fumetto di Maurizio Piraccini, in arte Dottor Pira, che riprende ed espande un suo omonimo albo autoprodotto del 2019. Un mondo regolato dalle leggi del marketing viene sconvolto dall’arrivo di un valoroso guerriero, Dragon Blaze G, generato da un paio di ricercate Sneakers, che si darà da fare per ricostruire «l’Universo incorrotto delle Origini». Qui ci sono le prime pagine da leggere in anteprima.
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Code Cluster 1 (saldaPress). Lorenzo Lanza (ai testi) e Valerio Fidanza (ai disegni) firmano un’opera sci-fi ambientata in un futuro distopico che guarda al manga e all’animazione giapponese. Sul pianeta Rellumia, la cacciatrice di tesori Relia e il potente (ma smemorato) guerriero Volken si incamminano per un lungo viaggio. In cambio, la ragazza farà di tutto per aiutare il compagno di avventure a recuperare i ricordi.
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Velvet Omnibus (saldaPress). Riedizione integrale della serie a fumetti del 2013 con cui Ed Brubaker e Steve Epting riscrissero la figura della Bond Girl adattandola ai tempi moderni. Quando il direttore della più grande agenzia spionistica al mondo viene ucciso, tutte le prove portano alla sua segretaria personale, Velvet Templeton, e a un oscuro segreto sepolto nel suo passato. La donna dovrà quindi tornare in campo come super spia per vendicare la morte dell’uomo che amava.
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Il Braccio di Ferro italiano 1 (Editoriale Cosmo). Editoriale Cosmo torna a pubblicare i fumetti di Braccio di Ferro di produzione italiana in una nuova collana che propone le storie realizzate tra gli anni Settanta e Novanta da Sandro Dossi. Qui potete leggere ulteriori dettagli e una storia completa.
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